Mentre scrivo,
davanti a me ci sono due quadri. Uno si intitola Window on nothing, l’altro Window on Black. Sono due quadri astratti, dell’artista Marco Ceravolo, che fanno parte della bella mostra allestita nel Centro Anisè, dove lavoro.
Una mostra d’arte in un centro di Psicologia potrebbe sembrare cosa abbastanza rara, fors’anche bizzarra.
Però io credo che l’arte e la psicoterapia siano concetti molto più in sintonia, con talmente aspetti in comune da risultare (quasi) sovrapponibili, per il fatto che entrambe sono tentativi degli esseri umani di lasciare emergere gli aspetti più profondi, nascosti e difficilmente traducibili dell’esistenza.
Proporre arte dove si esercita la psicoterapia non è più allora un concetto così fuori luogo, ma un lavoro sinergico di ricerca.
Quello che oggi viene comunemente definito inconscio potrebbe non essere altro che l’espressione del bisogno umano dell’atto creativo (o distruttivo) e del testimoniare la propria esistenza.
Nelle opere pittoriche si aggiunge forse anche un bisogno ulteriore, il bisogno estetico, del bello inteso come gestalt, buona forma, contenimento, dentro cui richiudere un messaggio intimo, creativo e creatore, da porgere in dono a chi godrà dell’opera stessa.
Riprendo Massimo Troisi che nel “Postino” afferma che “la poesia non è di chi la scrive ma di chi gli serve”. Come dire che il messaggio che parte dall'opera d'arte va a solleticare l'anima di ognuno in maniera diversa, a seconda della reazione dell'incontro tra l'uno e l'altra.
Funziona così anche tra il terapeuta e il paziente: la cura nasce proprio dentro il rapporto terapeutico nel momento in cui il bisogno del paziente incontra la disponibilità clinica del terapeuta (clinica viene da un termine greco che in origine indicava la disponibilità del medico ad adagiarsi, appoggiarsi verso il paziente steso nel letto); questo incontro determina la spinta vitale al cambiamento, in maniera per ognuno differente, così come un'opera d'arte suscita reazioni diverse da uno all'altro.
Thomas Ogden, psicanalista inglese, riassume molto meglio di come ho fatto io questo concetto: “
Con ogni paziente mi riscopro a parlare in modo diverso: con diversi toni di voce, diverse estensioni di suoni, volumi e inflessioni del discorso, una sintassi e una scelta delle parole differenti, e così facendo comunico quello che non potrebbe essere detto in nessun altro modo a nessun’altra persona.”
Allo stesso modo i due quadri che ho qui nel mio studio comunicano in maniera diversa sensazioni, emozioni, ricordi a ogni persona che dedica loro un attimo di attenzione.
Talvolta la psicologia e le varie forme di psicoterapia sono state, forse lo sono ancora, indifferenti alla bellezza.
Una cara collega, direi artista prestata alla psicologia, Dolores Munari Poda, l’ha definita “il peccato mortale della psicologia”; sono d'accordo (si sarà intuito): ignorandola noi psicologi perdiamo un messaggio umano fondamentale, che arriva direttamente dal luogo che da sempre ci proponiamo di indagare, l’anima.
Il rischio è spesso di rintanarsi in asettiche definizioni, che possono essere anche utili, puntuali e corrette, ma che non rendono il necessario senso del vissuto e della bellezza stessa: noi possiamo tranquillamente diagnosticare Vincent Van Gogh come persona“Affetto da disturbo bipolare”, che come diagnodi ci può anche stare. Solo che in questo modo perdiamo completamente la sua genialità artistica e le sue opere, patrimonio universale dell'umanità (il che non vuol dire che la diagnosi non serve, anzi, è uno strumento indispensabile per uno psicoterapeuta; ma rimane uno strumento, non un fine).
Mi affascina discutere insieme ai miei pazienti dei quadri nel mio studio. Mi stupisce constatare come ognuno porti un pezzo di sé nel quadro, veda un certo dettaglio invece che un altro, e come talvolta lo ricolleghi alla sua esperienza di vita, spesso senza sapere il perché. Anche la sensazione del rifiuto, addirittura del disgusto, verso un'opera astratta rivela spesso un certo atteggiamento difeso, come se la paura di essere preso per mano dall'opera per osservare la propria sensibilità fosse vista come un pericolo mortale.
Ma anche senza dover rendere consapevoli i pensieri e le sensazioni, avere delle opere d'arte in studio rende il percorso terapeutico più piacevole da vivere, sia per i pazienti che per il sottoscritto.Sedi: c/o Centro Intrecci: Via Suardi 71, Bergamo | c/o Centro Anisè: Via Nini da Fano 5, Bergamo
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